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domenica 9 agosto 2009

La gatta Cenerentola



Sappiate dunque che c'era una volta un principe vedovo, che aveva una figliola così cara che non ci vedeva per altri occhi; per lei teneva una maestra di prim'ordine, che le insegnava le catenelle, il punto Venezia, le frange e il punto a giorno, mostrandole tanto affetto che non bastano le parole a dirlo. Ma, essendosi sposato da poco il padre e pigliata una focosa malvagia e indiavolata, questa maledetta femmina cominciò ad avere in disgusto la figliastra, facendole cere brusche, facce storte, occhiate accigliate da spaventarla, tanto che la povera ragazza si lamentava sempre con la maestra dei maltrattamenti che le faceva la matrigna, dicendole: "O dio, e non potessi essere tu la mammarella mia, che mi fai tanti vezzi e carezze?" E tanto continuò a ripetere questa cantilena che, messole un vespone nell'orecchio, accecata dal diavolo, una volta la maestra le disse: "Se farai come ti dice questa testa pazza, io ti sarò mamma e tu mi sarai cara come le ciliegine di questi occhi". Voleva continuare a parlare, quando Zezolla (che così si chiamava la ragazza) disse: "Perdonami, se ti spezzo la parola in bocca. Io so che mi vuoi bene, perciò zitto e sufficit: insegnami l'arte, perché io vengo dalla campagna, tu scrivi io firmo" "Orsù" replicò la maestra, "senti bene, apri le orecchie e il pane ti verrà bianco come i fiori. Appena tuo padre esce, dì alla tua matrigna che vuoi un vestito di quelli vecchi che stanno dentro la grande cassapanca nel ripostiglio, per risparmiare questo che porti addosso. Lei, che ti vuol vedere tutta pezze e stracci, aprirà il cassone e dirà: 'Tieni il coperchio' E tu, tenendolo, mentre andrà rovistando dentro, lascialo cadere di colpo, così si romperà l'osso del collo. Fatto ciò, tu sai che tuo padre farebbe monete false per accontentarti e tu, quando ti accarezza, pregalo di prendermi per moglie, perché (beata a te!) sarai la padrona della vita mia"

Sentito questo a Zezolla ogni ora parve mille anni e, messo in opera per filo e per segno il consiglio della maestra, dopo che passò il tempo del lutto per la disgrazia della matrigna, cominciò a toccare i tasti del padre, perché si sposasse con la maestra. Da principio il principe la prese in burla; ma la figlia tanto tirò di piatto finché colpì di punta, perché alla fine il padre si piegò alle parole de Zezolla e, pigliatosi in moglie Carmosina, che era la maestra, fece una grande festa. Ora, mentre gli sposi stavano in tresca tra loro, affacciatasi Zezolla a un terrazzino di casa sua, una colombella, volata sopra un muro, le disse: "Quando ti viene voglia di qualcosa, mandala a chiedere alla colomba delle fate nell'isola di Sardegna, ché l'avrai subito".

La nuova matrigna per cinque o sei giorni soffocò di carezze Zezolla, facendola sedere al miglior posto a tavola, dandole il miglior boccone, mettendole i migliori vestiti. Ma, passato a mala pena un poco di tempo, mandato a monte e scordato completamente il favore ricevuto, (oh, triste l'anima che ha cattiva padrona!) cominciò a mettere in bella mostra sei figlie sue, che fino ad allora aveva tenuto segrete e, tanto fece con il marito che, prese in grazia le figliastre, gli cadde dal cuore la figlia propria, tanto che, pèrdici oggi manca domani, successe che si ridusse dalla camera alla cucina e dal baldacchino al focolare, dai lussi di seta e d'oro agli stracci, dagli scettri agli spiedi, né solo cambiò stato, ma perfino il nome, e da Zezolla fu chiamata Gatta Cenerentola.

Avvenne che il principe, dovendo andare in Sardegna per faccende necessarie al suo stato, domandò a una per una a Imperia Calamita Fiorella Diamante Colombina Pascarella, che erano le sei figliastre, che cosa volessero che gli portasse al suo ritorno: e chi chiese vestiti da sfoggiare, chi galanterie per la testa, chi belletti per la faccia, chi giocarelli per passare il tempo e chi una cosa e chi un'altra. Per ultimo, quasi per burla, disse alla figlia: "E tu, che vorresti?" E lei: "Niente altro, se non che mi raccomandi alla colomba delle fate, chiedendo che mi mandino qualcosa; e, se te lo scordi, possa tu non andare né avanti né indietro. Tieni a mente quello che ti dico: arma tua, mano tua".

Partì il principe, fece gli affari suoi in Sardegna, comprò quanto gli avevano chiesto le figliastre e Zezolla gli uscì di mente. Ma, imbarcatosi sopra a un vascello e facendo vela, la nave non riuscì a staccarsi dal porto, e pareva che fosse frenata dalla remora. Il padrone del vascello, ch'era quasi disperato, per la stanchezza, si mise a dormire e vide in sogno una fata, che gli disse: "Sai perché non potete staccare la nave dal porto? Perché il principe che viene con voi ha mancato la promessa alla figlia, ricordandosi di tutte tranne che del sangue suo". Si sveglia il padrone, racconta il sogno al principe, il quale, confuso per la sua mancanza, andò alla grotta delle fate, e, raccomandando loro la figlia, chiese che le mandassero qualcosa. Ed ecco venir fuori della grotta una bella giovane, che sembrava un gonfalone, la quale gli disse che ringraziava la figlia per la buona memoria e che se la godesse per amor suo. Così dicendo gli diede un dattero, una zappa, un secchiello d'oro e una tovaglia di seta, dicendo che l'uno era per seminare e le altre cose per coltivare la pianta. Il principe, meravigliato di questi doni, si congedò dalla fata e si avviò alla volta del suo paese e, dato a tutte le figliastre quanto avevano chiesto, finalmente consegnò alla figlia il dono che le faceva la fata. La quale, con una gioia che non la teneva nella pelle, piantò il dattero in un bel vaso di coccio; lo zappava, lo innaffiava e con la tovaglia di seta l'asciugava mattino e sera, tanto che in quattro giorni, cresciuto dell'altezza di una donna, ne uscì fuori una fata, dicendole: "Che desideri?" Zezolla le rispose che qualche volta desiderava di uscire di casa, ma non voleva che le sorelle lo sapessero. Replicò la fata: "Ogni volta che ti fa piacere, vieni vicino al vaso di coccio e dì: «Dattero mio dorato, con la zappetta d'oro t'ho zappato, con il secchiello d'oro t'ho innaffiato, con la tovaglia di seta t'ho asciugato: spoglia a te e vesti a me!» E quando vorrai spogliarti, cambia l'ultimo verso, dicendo: «Spoglia a me e vesti a te!»

Ora, essendo venuto un giorno di festa ed essendo uscite le figlie della maestra tutte spampanate agghindate impellicciate, tutte nastrini campanellini e collanelle, tutte fiori odori cose e rose, Zezolla corre subito al vaso di coccio e, dette le parole insegnatele dalla fata, fu agghindata come una regina e, posta su una cavalcatura con dodici paggi lindi e pinti, andò dove andavano le sorelle, che fecero la bava alla bocca per le bellezze di questa splendida colomba. Ma, come volle la sorte, capitò nello stesso luogo il re, il quale, visto la straordinaria bellezza di Zezolla, ne restò subito affatturato e disse al servitore più fedele d'informarsi su come poter sapere di questa bellezza, e chi fosse e dove stava. Il servitore le si mise dietro con la stessa andatura: ma lei, accortasi dell'agguato, gettò una manciata di scudi d'oro, che si era fatta dare dal dattero a questo scopo. Quello, avvistati gli scudi, si dimenticò d'inseguire il cavallo per riempirsi le zampe di quattrini, e lei s'infilò di slancio in casa, dove, spogliatasi come le aveva insegnato la fata, aspettò quelle bruttone delle sorelle, che, per farle dispetto, raccontarono delle tante cose belle che avevano visto. Nel mentre, il servitore tornò dal re e raccontò il fatto degli scudi; e quello, invaso da una rabbia grande, gli disse che per quattro quattrini cacati aveva venduto il piacer suo e che a qualsiasi costo, alla prossima festa, avrebbe dovuto cercare di sapere chi fosse la bella giovane e dove si nascondesse questo bell'uccello.

Arrivò l'altra festa e, uscite le sorelle tutte apparate ed eleganti, lasciarono la disprezzata Zezolla vicino al focolare; e lei subito corre dal dattero e, pronunciate le solite parole, ecco che uscirono un gruppo di damigelle. Chi con lo specchio, chi con la carafella d'acqua di zucca, chi con il ferro dei riccioli, chi con il panno del rosso, chi con il pettine, chi con le spille, chi con i vestiti, chi con il diadema e le collane e, fattala bella come un sole, la misero su una carrozza a sei cavalli, accompagnata da staffiere e da paggi in livrea e, arrivata nello stesso luogo dove c'era stata l'altra festa, aggiunse meraviglia al cuore delle sorelle e fuoco al petto del re. Ma, andatosene di nuovo e andatole dietro il servo, per non farsi raggiungere gettò una pugno di perle e gioielli e, mentre quell'uomo dabbene si fermò a beccarsele, che non era cosa da perdere, essa ebbe il tempo di arrivare a casa e di spogliarsi come al solito. Il servitore tornò mogio mogio dal re, il quale disse: "Per l'anima dei morti miei, se tu non la trovi, ti assesto una bastonatura e ti darò tanti calci in culo per quanti peli hai nella barba".

Arrivò l'altra festa e, uscite le sorelle, lei tornò dal dattero e, continuando la canzone fatata, fu vestita superbamente e posta dentro a una carrozza d'oro, con tanti servi attorno che pareva una puttana sorpresa al passeggio e attorniata dagli sbirri. E, andata a far invidia alle sorelle, se ne partì, e il servo del re si cucì a filo doppio alla carrozza. Essa, vedendo che le era sempre alle costole, disse: "Sferza, cocchiere!", ed ecco la carrozza si mise a correre con tanta furia e fu così precipitosa la corsa che le cascò una pianella; e non si poteva vedere più bella cosa. Il servitore, che non riuscì a raggiungere la carrozza che volava, raccolse la pianella da terra e la portò al re, raccontandogli quanto gli era successo. E lui, presala in mano, disse: "Se le fondamenta sono così belle, cosa sarà la casa? O bel candeliere, dove è stata la candela che mi strugge! O treppiede della bella caldaia, dove bolle la mia vita! O bei sugheri attaccati alla lenza d'Ammore, con cui ha pescato quest'anima! Ecco, io vi abbraccio e vi stringo e, se non posso arrivare alla pianta, adoro le radici e, se non posso avere i capitelli, bacio i basamenti! Già siete stati cippi di un bianco piede, ora siete tagliole di un cuore nero. Per voi era alta un palmo e mezzo di più colei che tiranneggia questa vita e per voi cresce altrettanto di dolcezza questa vita, mentre vi guardo e vi posseggo" Così dicendo chiama lo scrivano, comanda il trombettiere e tu tu tu fa lanciare un bando: che tutte le femmine della città vengano a una festa pubblica e a un banchetto, che si è messo in testa di fare. E, venuto il giorno stabilito, oh bene mio: che masticatorio e che cuccagna che si fece! Da dove vennero tante pastiere e casatielli? Da dove li stufati e le polpette? Da dove i maccheroni e i ravioli? Tanta roba che ci poteva mangiare un esercito intero. Arrivarono tutte le femmine, e nobili e ignobili e ricche e pezzenti e vecchie e giovani e belle e brutte e, dopo aver ben pettinato, il re, fatto il prosit, provò la pianella a una per una a tutte le convitate, per vedere a chi andasse a capello e a pennello, tanto che potesse conoscere dalla forma della pianella quella che andava cercando. Ma, non trovando piede che ci andasse a sesto, stava a disperarsi. Tuttavia, dopo aver zittito tutti, disse: "Tornate domani a fare un'altra volta penitenza con me. Ma, se mi volete bene, non lasciate nessuna femmina in casa, sia chi sia"

Disse il principe:"Ho una figlia, ma fa sempre la guarda al focolare, perché è disgraziata e da poco e non merita di sedere dove mangiate voi" Disse il re: "Questa sia in testa alla lista, perché così mi piace" Così partirono e il giorno dopo tornarono tutte e, insieme con le figlie di Carmosina, venne Zezolla, e il re, non appena la vide, ebbe come l'avvertimento che fosse quella che desiderava, tuttavia abbozzò. Ma, finito di sbattere i denti, si arrivò alla prova della pianella, che non s'era neppure accostata al piede de Zezolla, che si lanciò da sola al piede di quel coccopinto d'Amore, come il ferro corre alla calamita. Vista la qual cosa il re, corse a stringerla forte tra le braccia e, fattala sedere sotto il baldacchino, le mise la corona in testa, comandando a tutte che le facessero inchini e riverenze, come alla loro regina. Le sorelle vedendo ciò, piene di rabbia, non avendo lo stomaco di sopportare lo scoppio del loro core, se la filarono quatte quatte verso la casa della mamma, confessando a loro dispetto che

è pazzo chi contrasta con le stelle.

Le tre sorelle



C'era una volta una mamma che aveva tre figlie e, a causa della grande povertà che con tante disgrazie e rovesci di fortuna era entrata in casa sua, le mandava in giro a chiedere l'elemosina per sopravvivere.

Una mattina aveva raccattato qualche foglia di cavolo buttata dalla finestra dal cuoco di un palazzo, e volendo cuocerle chiese alle sue figlie di andarle a prenderle un po' d'acqua alla fontana.
Loro si misero a litigare, la prima diceva che doveva andarci la mezzana, e la mezzana rispondeva che questa volta toccava alla prima, tanto che alla fine la povera mamma disse:
"Vorrà dire che ci penserò io", e prese la brocca per andarci lei, anche se era tanto vecchia che si reggeva male sulle gambe.
Ma Alma, che era la più piccina, disse:
"Dammela a me mammina, che anche se ho poca forza voglio risparmiarti questo lavoro".
Si prese la brocca e andò fuori dalla città, dove c'era una fontana intorno alla quale sbocciavano tanti fiori variopinti, e mentre riempiva la brocca apparve uno schiavo, che le disse:
"Mia bella fanciulla, se tu volessi venire con me a una grotta che è poco distante, avresti tanti bei regali".
Alma, che sognava sempre di ricevere un regalo, gli rispose:
"Fammi portare quest'acqua alla mia mamma che mi aspetta, e poi torno qui".
E, riportata a casa la brocca, con la scusa di andare a cercare qualche scheggia di legno per il fuoco, tornò alla fontana, dove lo schiavo l'aveva aspettata, e s'incamminò con lui, che facendola passare dentro a una grotta di tufo ornata d'edera e capelvenere la portò in un bellissimo palazzo sotterraneo, tutto sfavillante d'oro, dove fu subito apparecchiata per lei una tavola meravigliosa; nello stesso tempo apparvero due belle cameriere, che la spogliarono dei poveri stracci che aveva addosso e la vestirono come una principessa. E a tarda sera la misero in un letto tutto ricamato di perle e d'oro dove, appena si spensero le candele, qualcuno si coricò accanto a lei.
Successe la stessa cosa per alcuni giorni, quando a un certo punto la fanciulla sentì un gran desiderio di vedere la mamma, e lo disse allo schiavo, che andò in una stanza a parlare con qualcuno, e tornato con una grande borsa di monete d'oro le disse:
"Questa borsa portala alla tua mamma, ma non scordarti nulla lungo il cammino, e torna presto, senza dire a nessuno da dove sei venuta né dove sei stata".

Quando Alma andò a casa le sue sorelle vedendola così bella, ben vestita e piena di gioie, sentirono crescere un'invidia che quasi le strozzava. E quando Alma voleva andare via, la mamma e le sorelle la volevano accompagnare, ma lei, rifiutando la compagnia, tornò al palazzo entrando dalla stessa grotta.
Passò tranquilla un po' di mesi nello stesso modo, ma a un certo punto le tornò la voglia di vedere la mamma, e lo schiavo consultandosi con qualcuno le permise di andare e le diede un'altra grande borsa di monete d'oro ricordandole di tornare presto e che non doveva far sapere a nessuno da dove veniva e dove stava.
Dopo che la stessa cosa si fu ripetuta tre o quattro volte, aumentando ad ogni visita l'invidia delle sorelle, alla fine queste brutte arpie si diedero tanto da fare che seppero da un'orca tutto quello che era successo, e quando Alma tornò da loro le dissero:
"Anche se tu non hai voluto raccontarci nulla della fortuna che ti è toccata, noi sappiamo tutto: ogni notte, siccome ti fanno bere del vino col sonnifero, non puoi accorgerti che dorme con te un giovane bellissimo. Ma non ti potrai mai godere tutta la felicità se non ti decidi a seguire il nostro consiglio. In fondo siamo noi le tue sorelle, e chi può volerti più bene? Noi vogliamo che tu stia ancora meglio e che sia ancora più contenta di come sei. E allora, quando la sera vai a dormire e lo schiavo ti porge il bicchiere, tu fai finta di girarti per prendere il tovagliolo e mentre non ti vede butti via il vino, che così puoi stare sveglia tutta la notte. E appena avrai visto il tuo sposo addormentato apri questo catenaccio, perché l'incantesimo deve rompersi anche se lui non vuole, e tu diventerai la signora più felice del mondo".

La povera Alma, che non sapeva che le sorelle parlavano come colombine ma erano delle serpi velenose, credette alle loro parole e, preso il catenaccio, tornò al solito palazzo passando dalla grotta. Poi, quando venne la notte, fece come le avevano insegnato quelle bugiarde, e appena tutto fu silenzioso e tranquillo con l'acciarino accese una candela e vide steso accanto a lei un miracolo di bellezza, un giovane che avrebbe incantato chiunque lo avesse visto. Innamorata del bellissimo sposo, disse:
"Giuro che ora non ti lascio più scappare!"
Preso il catenaccio lo aprì, così vide un gruppo di donne che portavano sulla testa tante belle matasse di filo. Quando una di loro lasciò cadere una matassa, Alma, che era tanto gentile, non ricordandosi più dov'era, le gridò:
"Signora, raccogli la tua matassa!". A quello strillo il giovane si svegliò, e gli dispiacque tanto essere stato scoperto che immediatamente chiamò lo schiavo, fece rimettere ad Alma gli stracci con i quali era arrivata e la mandò via anche se era incinta. Lei, pallida come dopo una terribile malattia, tornò dalle sorelle, ma quelle crudeli la mandarono via con sgarbo e brutte parole.
Allora si mise a chiedere l'elemosina vagando per il mondo, finché poverina, dopo mille patimenti, quando era vicina a partorire, arrivò alla città di Torrelunga, e bussò al palazzo reale chiedendo che la lasciassero entrare per riposare anche su un po' di paglia. Una damigella di corte che era buona l'accolse gentilmente, e venuto il tempo Alma partorì un bambino maschio tanto bello che era una meraviglia a guardarlo.

La prima notte dopo la sua nascita, mentre tutti gli altri dormivano, entrò un bellissimo giovane in quella stanza, prese in braccio il piccino e cullandolo disse:

“O mio bambino, mio bel bambino,
se lo sapesse la regina

ti laverebbe nella conca d'oro
ti fascerebbe con le fasce d'oro:
e se il gallo non canterà
mai più nessuno ci separerà.”


E dopo queste parole, al primo canto del gallo, sparì come se fosse stato d'argento vivo.
La damigella aveva sentito tutto, e siccome quel bellissimo giovane veniva ogni notte, diceva quelle parole e spariva al primo canto del gallo, andò a raccontarlo alla regina, che appena fu giorno fece un crudele bando, che ordinava di tirare il collo a tutti i galletti di Torrelunga, rendendo vedove in una volta sola tante povere galline.
La regina andò in quella stanza ed era ben sveglia quando arrivò il giovane, che come ogni notte, cullando il bambino fra le sue braccia, disse:

“O mio bambino, mio bel bambino,
se lo sapesse la regina
ti laverebbe nella conca d'oro
ti fascerebbe con le fasce d'oro:
e se il gallo non canterà
mai più nessuno ci separerà.”


La regina riconobbe suo figlio, e all'alba corse ad abbracciarlo, liberandolo dalla maledizione di un'orca: che vagasse per il mondo finché la sua mamma non lo avesse abbracciato all'inizio di un giorno in cui nessun gallo avrebbe cantato.
La regina era felice, e dopo aver saputo tutta la storia celebrò con grandi feste le nozze di suo figlio con Alma, che si trovò sposata con un principe meraviglioso.
E le sorelle, quando seppero che aveva sposato il principe, con una gran faccia tosta vennero a trovarla, ma ebbero quello che si meritavano, perché nessuno volle farle entrare, così sempre più divorate dall'astio si accorsero che dall'invidia non avevano ricavato un accidente.

Le dodici fate


Una volta, raccontano, sul monte Ineu vivevano dodici fate. La cittadella entro cui vivevano era tutta d'ambra; le porte avevano stipiti d'oro e d'argento ed erano adorne di belle sculture. Le fate erano così belle, che chiunque le guardasse in viso diventava folle d'amore e vagava sulle loro tracce finchè non era completamente fuori di sè. La loro signora, la principessa delle fate, non aveva pari: la sua voce era così dolce e incantevole, che i pastori, quando guidavano le greggi alle falde del monte e le udivano cantare nelle sere di luna piena, rimanevano ammaliati e non potevano più dormire la notte.

Da quelle parti abitava anche un cacciatore, giovane ma molto famoso, di nome Valer. Questi fece una scomessa con altri giovani, vantandosi d'essere in grado di rapire la principessa delle fate e farla moglie. Ma il suo desiderio restava un semplice desiderio, perchè le fate erano custodite da due giganti, ciascuno dei quali aveva un solo occhio sulla fronte; erano brutti e deformi entrambi, ma abbastanza forti per rompere il tronco d'un albero senza sforzarsi troppo. Giorno e notte facevano la guardia intorno alla cittadella, a turno, e ogni essere umano era minacciato di morte, qualora avesse osato accostarsi alle mura. Le dodici fate rapivano dai villaggi vicini dodici giovanotti ogni anno e danzavano con loro per tutta la notte, fino al primo canto del gallo. Quando erano esauste per la danza, arrivavano i giganti, con l'ordine di scagliare i giovanotti oltre le mura della cittadella, affinchè dei loro corpi restasse solo qualche brano. Alcuni, i più fortunati, ne uscivano sciancati, con la spina dorsale rotta e variamente mutilati, tanto che suscitavano pietà e commiserazione. Valer, visto come andavano le cose, decise di stare in agguato, finchè i giganti dal petto taurino non fossero colpiti dalla punta avvelenata delle sue frecce. E questa occasione non tardò a presentarsi.

Un giorno di calda estate, le fate erano uscite per bagnarsi nelle acque del lago Lala e i due giganti ricevettero l'ordine di vigilare fuori dalle mura della cittadella; così non le avrebbero viste mentre giocavano e sguazzavano nude nelle onde. Valer non esitò. Si appressò alla cittadella più che potè, fermandosi ad ogni passo dietro un tronco di un albero per non farsi vedere; quandi pensò che fosse il momento opportuno, incoccò una freccia aguzza, con la punta d'acciaio, e saettò il gigante di destra nel bel mezzo del petto. Il dardo penetrò direttamente nel cuore, sicchè il gigante, senza poter dire nè ai nè bai, rovinò a terra in un lago di sangue. Adattò un'altra freccia alla corda dell'arco e scoccò pure questa nel petto del secondo gigante. Ebbe identica fortuna e uccise anche quello. Se non li avesse centrati giusto nel cuore, guai a lui: lo avrebbero soffocato come una cornacchia appena nata. Poi entrò nella cittadella e dalla riva del lago spiò le fate che si bagnavano, con gli occho sgranati per la loro bellezza; poi, di soppiatto, veloce come un fulmine, rubò la veste della pricipesa. Le altre fate, accortesi del pericolo, si trasformarono in colombe e spiccarono il volo verso occidente; rimase lì soltanto la principessa, la quale non cessava di implorare Valer che le restituisse le vesti, promettendogli in cambio tesori e beni di grande valore. Ma lui non la ascoltava neppure. Non gli importava nulla nè della sua preghiera nè delle sue lacrime e della sua angoscia e non rispondeva a nessuna domanda. Così gli avevano insegnato le vecchie del villaggio, esperte di magia: non bisogna parlare con le fate nè restituire loro le vesti, se le si vuole privare del potere di nuocere. Visto che col giovane non c'era da scherzare, la fata alla fine si calmò.

Sembrava che si fosse abituata a vivere con lui, tanto più che Valer era un ragazzo molto bello e bravo, la aiutava, faceva di tutto per lei, le portava selvaggina fresca, le dava una mano a cucinare; soltanto, non parlava e non mostrava il luogo in cui aveva nascosto la veste incantata. Provvide lui a confezionarle altre vesti graziose; ma con quelle essa non poteva stregare a nessuno, perchè non avevano nessun potere magico.

Così passarono i giorni, le settimane, i mesi.

Dopo nove mesi, la pricipessa delle fate diede alla luce un bimbo dai capelli d'oro, bello come un sogno. Valer era molto felice; e sembrava felice anche lei, quando vedeva cinguettare quella creaturina leggiadra che le assomigliava perfettamente nel viso e in tutta la figura. Tuttavia a volte veniva improvvisamente colta da una grande tristezza, da una gran pena; allora cominciava a cantare finchè valli e monti risonavano del suo canto. Quando cantava con più ardore, venivano le undici colombe, le sue sorelle, a posarsi sulle mura della cittadella; la principessa di un tempo usciva a mostrar loro il bambino, dentro una cuna d'abete. Esse lo osservavano a lungo, come se si tratasse di un'apparizione, poi scuotevano il capo e ripartivano verso li loro paese.

Una sera Valer tornò a casa più stanco del solito. Era corso dietro ad alcune capre nere ed era riuscito a colpirne una sola, mentre le altre si erano dileguate all'ombra delle rupi montane. Andò a coricarsi subito, dimenticando di cingersi per bene alla vita la veste della fata, che portava addosso notte e dì affinchè lei non gliela rubasse. La principessa delle fate, vedendo ai fianchi di Valer la veste dal magico potere, trasalì. Le rinacque nell’anima il desiderio di andarsene nel mondo dell’isola marina, dai genitori e dalle sorelle che la aspettavano, a vivere nel fasto e nello sfarzo, perché suo padre era il re del mare. Lo accarezzò e si diede da fare, finchè riuscì a svolgere la veste e ad indossarla. Adesso era potente. Poteva ucciderlo con un solo cenno; ma il bimbo le sorrideva nel sonno, così dolcemente che essa perdonò Valer per tutto il male che le aveva fatto. Gli lasciò un biglietto: "Ti lascio il bimbo e la vita. Vado dai miei genitori. Non potrai ritrovarmi, mai più. Con la mia paretenza, la cittadella sprofonda nelle tenebre. Fatti una capanna o trova una grotta, e rifugiatevi là dentro. Quando avrò nostalgia del bimbo, verrò a vedervi.

"La cittadella fu inghiottita dalla terra, e fu come se non fosse mai esistita. La principessa delle fate si trasformò in una colomba e si diresse in volo verso il paese dei suoi genitori. Il povero Valer, destandosi il giorno seguente sulla riva del lago Lala con il bambino accanto a sé, rimase atterrito. Lesse il biglietto e si percosse la fronte col palmo della mano, rimproverandosi di non aver bruciato la veste di lei, per impedirle di abbandonarlo. Cercò una grotta come rifugio per il bambino e gli approntò un lettuccio fatto di morbide pelli di animali. Trovò poi una capretta e la portò nella grotta col suo caprettino, affinchè allattasse, oltre al suo piccolo, anche il bambino. I due piccoli poppavano quindi l’uno accanto all’altro e Valer correva tutto il giorno per procurare il cibo alla mite capretta. I giorni passavano gli uni dopo gli altri, ma la pena del cacciatore era sempre infinita. Non aveva voglia di dormire né di mangiare e la sua anima era colma di amarezza. Aveva nostalgia della sua sposa. Ma non era ancora trascorso un mese, che la principessa delle fate capitò da lui e gli disse:"Da oggi puoi parlare con me. La nostalgia del mio bimbo mi ha piegata e mi ha indotto a lasciare i miei genitori. A partire da oggi resterò sempre accanto a voi".Valer cadde in ginocchio e le baciò la mano ringraziandola.

Con le pietre preziose che essa aveva portate costruirono un bellissimo castello, dove vissero fino alla tarda vecchiaia, nella felicità e nell’amore perfetto. Le undici colombe venivano una volta all’anno, portando regali al bambino e lettere del padre a lei; il bambino cantava belle canzoni, perché aveva ereditato dalla mamma il dono del canto.

lunedì 3 agosto 2009

La regina delle nevi (versione integrale)


Guarda, adesso cominciamo, quando saremo alla fine della storia ne sapremo più di quanto ne sappiamo adesso, perché qui si parla di uno spirito cattivo, uno dei peggiori, "Il diavolo". Un giorno era proprio di buon umore, perché aveva costruito uno specchio che aveva la facoltà di far sparire immediatamente tutte le cose belle e buone che vi si rispecchiavano, come non fossero state nulla; quello che invece era brutto e che appariva orribile, risaltava ancora di più. I più bei paesaggi sembravano spinaci cotti, e gli uomini migliori diventavano orribili o stavano schiacciati a testa in giù; i volti venivano così deformati che non erano più riconoscibili, e se qualcuno aveva una lentiggine, allora poteva essere ben sicuro che questa si sarebbe allargata fino al naso e alla bocca. Era straordinariamente divertente, diceva il diavolo. Se c'era un pensiero pio e buono questo nello specchio diventava una smorfia, così il diavolo doveva per forza ridere della sua divertente invenzione. Tutti quelli che andavano a scuola di magia, perché lui teneva una scuola di magia, raccontavano in giro che era successo un prodigio: adesso finalmente si poteva vedere, dicevano, come erano veramente il mondo e gli uomini. Corsero intorno con lo specchio e alla fine non ci fu più un solo paese o un solo uomo che non fosse stato deformato nello specchio. Ora volevano volare fino al cielo per prendersi gioco degli angeli e di nostro Signore. Più volavano in alto con lo specchio, più questo rideva con violenza: riuscivano a malapena a tenerlo; volarono sempre più in alto, vicino a Dio e agli angeli; a un certo punto lo specchio tremò così terribilmente per le risate, che sfuggì loro di mano e precipitò verso la terra, dove si ruppe in centinaia di milioni, di bilioni di pezzi, e ancora di più. E così fece molto più danno di prima, perché alcuni pezzi erano piccoli come granelli di sabbia, e volavano intorno al vasto mondo, e quando entravano negli occhi della gente vi rimanevano, così la gente vedeva tutto storto, oppure vedeva solo il lato peggiore delle cose, perché ogni piccolo pezzettino dello specchio aveva mantenuto la stessa forza che aveva lo specchio intero. A qualcuno una piccola scheggia dello specchio cadde addirittura nel cuore, e questo fu veramente orribile: il cuore divenne come un pezzo di ghiaccio. Alcune schegge dello specchio erano invece così grandi che vennero usate per farne vetri da finestra, ma non era il caso di guardare i propri amici attraverso quei vetri; altri pezzi diventarono occhiali, e questo fu proprio un male, quando la gente metteva gli occhiali per vedere meglio e per essere obiettiva. Il maligno rideva tanto che lo stomaco gli ballava tutto, e gli faceva il solletico. Ma fuori volavano ancora piccoli pezzi di vetro nell'aria.

Ora sentiamo cosa accadde...

Nella grande città, dove ci sono tante case e tanti uomini che non resta posto perché tutta la gente possa avere un giardinetto, e dove per questo la maggior parte della gente deve accontentarsi dei fiori nei vasi, abitavano due bambini poveri, che avevano però un giardino appena più grande di un vaso di fiori. Non erano fratelli, ma si volevano bene come se lo fossero stati. I genitori erano vicini di casa, abitavano in due soffitte nel punto in cui i tetti delle due case confinavano e le grondaie si univano si affacciava da ogni casa una finestrella; bastava solo scavalcare la grondaia, per poter passare da una finestra all'altra. I genitori avevano messo lì fuori ognuno una grossa cassa di legno e in questa crescevano le erbe aromatiche che usavano in cucina, e un piccolo roseto; ce n'era uno in ogni cassa e cresceva proprio bene.

Un giorno i genitori pensarono di mettere le casse in modo trasversale sulla grondaia, così da unire quasi le due finestre e creare come un terrapieno di fiori. I rametti del pisello pendevano dalle casse, i roseti allungavano i rami e si arrampicavano intorno alle finestre, intrecciandosi in un arco di trionfo di verde e di fiori. Poiché le cassette erano molto alte e i bambini sapevano che non potevano scavalcarle avevano avuto il permesso di uscire dalla finestra, sedersi sui loro piccoli seggiolini sotto le rose e lì giocare beatamente. D'inverno però questo divertimento non c'era. Le finestre erano gelate, ma allora i bimbi scaldavano una monetina di rame e la mettevano sulla finestra gelata, perché si formasse un piccolo spiraglio rotondo; dietro ogni spiraglio faceva capolino un dolcissimo occhio, uno da ogni finestra; erano il bambino e la bambina. Lui si chiamava Kay e lei Gerda. D'estate con un balzo potevano incontrarsi; d'inverno dovevano invece scendere molte scale e poi salirne altrettante; c'era tempesta di neve. "Sono bianche api che sciamano!" disse la vecchia nonna. "Hanno anche loro un'ape regina?" chiese il bambino, perché sapeva che tra le vere api c'era anche una regina. "Certo che ce l'hanno!" rispose la nonna. "Vola dove le api sono più fitte! È più grande di tutte, e non si posa mai sulla terra, risale di nuovo nel cielo scuro. Molte notti d'inverno vola attraverso le strade della città e guarda nelle finestre, allora queste gelano in modo stranissimo, come venissero ricoperte di fiori." "Sì, l'ho visto!" esclamarono entrambi i bambini, e quindi sapevano che quella era la verità. "La regina della neve può entrare qui?" chiese la bambina. "Lascia che venga!" rispose il ragazzo. "La metto sulla stufa calda, così si scioglie." Ma la nonna, carezzandogli i capelli, raccontava altre storie. Di sera il piccolo Kay, già mezzo svestito, si arrampicò su una sedia vicino alla finestra e guardò fuori da quel piccolo buco, un paio di fiocchi di neve caddero là fuori e uno di questi, il più grande, restò posato sull'angolo di una delle cassette di fiori. Crebbe sempre più e alla fine si trasformò in una donna avvolta in sottilissimi veli bianchi che sembravano formati da milioni di fiocchi di neve brillanti come stelle. Era molto bella e fine, ma fatta di ghiaccio, di un ghiaccio splendente e brillante, eppure era viva; gli occhi osservavano come due chiare stelle, ma non c'era pace né tranquillità in loro. Fece cenno verso la finestra e salutò con la mano. Il bambino si spaventò e saltò giù dalla sedia, e allora fu come se là fuori volasse un grande uccello davanti alla finestra. Il giorno dopo tutto era gelato; poi venne il disgelo, e infine giunse la primavera, il sole splendette, il verde spuntò, le rondini costruirono i nidi, le finestre si aprirono e i bambini si ritrovarono nel loro piccolo giardino lassù vicino alla gronda del tetto sopra tutti gli altri piani. Le rose quell'estate fiorirono meravigliose; la bambina aveva imparato un inno in cui si parlava di rose e arrivata a quel punto pensava alle sue; lo cantava insieme al ragazzino:

"Le rose crescono nelle valli,
laggiù parleremo con Gesù Bambino!"

I piccoli si tenevano per mano, baciavano le rose e guardarono verso il sole di Dio parlando come se Gesù Bambino fosse stato là. Che belle giornate estive, come era bello stare fuori vicino a quei freschi roseti, che sembrava non volessero mai smettere di fiorire. Kay e Gerda guardavano in un libro di figure immagini di animali e di uccelli, quando la campana batté proprio le cinque dal grande campanile, e Kay esclamò: "Ahi! Ho avuto una fitta al cuore, e mi è entrato qualcosa nell'occhio!". La bambina gli prese il capo; lui sbatteva gli occhi, ma no, non si vedeva niente. "Non credo che sia uscita" disse, ma non era così. Era proprio uno di quei granellini di vetro che si erano staccati dallo specchio, dallo specchio magico, ce lo ricordiamo quell'orribile specchio che rendeva tutte le cose grandi e buone che vi si specchiavano piccole e orribili, mentre le cose cattive e malvage risaltavano molto e di ogni cosa si vedevano subito i difetti. Povero Kay, anche lui aveva ricevuto un granello, proprio nel cuore. E il cuore gli sarebbe presto diventato di ghiaccio; ora non sentiva più male, ma il granello era sempre là. "Perché piangi?" chiese. "Sei brutta quando piangi, e poi io non ho niente!" E improvvisamente gridò: "Uh! quella rosa è stata morsicata da un verme! E guarda: quell'altra è tutta storta! In fondo sono rose orribili! assomigliano alle cassette in cui si trovano!". E intanto col piede colpì duramente la cassetta e strappò due rose. "Kay! che cosa fai?" gridò la bambina, e quando lui vide che lei si era spaventata, strappò un'altra rosa e corse via nella sua finestra, lontano dalla brava Gerda. Quando poi lei arrivava col libro illustrato, lui diceva che era un passatempo per bambini, e quando la nonna raccontava le storie, lui interveniva sempre con un "Mah", e addirittura si metteva a camminare dietro di lei, si metteva i suoi occhiali e parlava proprio come la nonna; era bravissimo a imitarla e la gente rideva. Presto imparò a imitare la gente della strada. Tutto quello che c'era in loro di strano e brutto, Kay lo sapeva imitare, e così la gente diceva: "È proprio in gamba quel ragazzo!". Ma in realtà tutto accadeva per quel vetro che gli era entrato nell'occhio, quel vetro che gli stava sul cuore: per questo si comportava così, prendeva in giro persino la piccola Gerda, che gli voleva un bene dell'anima. Ora i suoi passatempi erano ben diversi da quelli di prima erano molto seri: un giorno d'inverno, mentre nevicava forte arrivò con una grande lente di ingrandimento, sollevò fuori dalla finestra l'orlo della sua giacchetta blu e aspettò che i fiocchi di neve vi si posassero. "Guarda in questa lente, piccola Gerda!" disse, e ogni fiocco di neve divenne molto grande e sembrò un meraviglioso fiore o una stella a dieci punte; era proprio meraviglioso. "Vedi come è ben fatto!" disse Kay "è molto più interessante dei fiori veri. Non c'è neppure un difetto, sono tutti identici, se solo non si sciogliessero!" Poco dopo ritornò con dei grossi guanti e con lo slittino sulla schiena, gridò nelle orecchie a Gerda: "Ho avuto il permesso di andare nella piazza grande dove giocano anche gli altri ragazzi!" e se n'era già andato.

Là nella piazza i ragazzi più arditi legavano i loro slittini ai carri dei contadini, così venivano trascinati per un bel pezzo: era molto divertente. Stavano giocando così quando giunse una grande slitta, tutta dipinta di bianco, dove sedeva una persona avvolta in una morbida pelliccia bianca e con un cappuccio in testa; la slitta fece due volte il giro della piazza e Kay vi legò svelto lo slittino, così si fece trascinare. Andò sempre più forte fino alla strada successiva; la persona che guidava voltò la testa e fece un cenno molto affettuoso a Kay, come se si conoscessero già; ogni volta che Kay voleva sciogliere il suo slittino quella gli faceva di nuovo cenno, e così Kay rimaneva seduto; corsero fino alla porta della città. Allora la neve cominciò a precipitare così fitta che il fanciullo non poteva vedere a un palmo davanti a sé, mentre veniva trascinato via così sciolse velocemente il laccio per staccarsi dalla grande slitta, ma non servì a nulla, la sua piccola slitta rimase attaccata, e andava alla velocità del vento. Allora urlò forte, ma nessuno lo sentì e la neve continuava a cadere e la slitta continuava a correre, ogni tanto dava un balzo, era come se stesse passando sopra fossi o siepi. Kay era spaventatissimo, voleva recitare il Padre Nostro, ma riusciva solo a ricordare la tavola pitagorica. I fiocchi di neve diventavano sempre più grandi, alla fine sembravano grosse galline bianche; improvvisamente la slitta balzò di lato, si fermò e la persona che la guidava si alzò; la pelliccia e il cappuccio erano fatti di neve, e lei era una dama, alta e snella, di un candore splendente, era la regina della neve. "Abbiamo fatto un bel giro!" esclamò "ma che freddo! Riparati nella mia pelliccia di orso!" e se lo mise vicino sulla slitta e gli avvolse intorno la pelliccia, e a lui sembrò di affondare in una montagna di neve. "Hai ancora freddo?" chiese, baciandolo sulla fronte. Oh! il bacio era più freddo del ghiaccio, e gli andò direttamente al cuore, che già era un pezzo di ghiaccio. Gli sembrò di morire. Ma solo per un attimo, poi si sentì bene; e non notò più il freddo tutt'intorno. "Lo slittino? Non dimenticare il mio slittino!" fu la prima cosa che ricordò; lo slittino venne legato a una delle galline bianche, che seguivano volando la slitta della regina. La regina della neve diede un altro bacio a Kay e subito lui dimenticò la piccola Gerda e tutti quelli che erano a casa. "Non ti darò più baci!" esclamò lei "altrimenti ti farei morire." Kay la guardò: era così bella, un viso più bello e intelligente non lo avrebbe potuto immaginare; ora non sembrava più di ghiaccio, come quella volta che l'aveva vista fuori dalla finestra mentre gli faceva cenno: ai suoi occhi appariva perfetta, non sentì affatto paura, le raccontò che sapeva fare i calcoli a memoria, anche con le frazioni, che conosceva l'estensione in miglia quadrate dei vari paesi e il numero degli abitanti; lei continuava a sorridergli. Allora Kay pensò che non era abbastanza quello che conosceva, così guardò in alto, nel grande spazio dell'aria, e la regina volò con lui, volò in alto su una nera nuvola, mentre la tempesta infuriava e fischiava, sembrava che cantasse vecchie canzoni. Volarono sopra boschi e laghi, sopra giardini e paesi, sotto di loro soffiava il freddo vento, ululavano i lupi, la neve cadeva, sopra di loro volavano neri corvi gracchianti, ma sopra a tutto brillava la luna, grande e luminosa, e alla luna Kay guardò in quella lunghissima notte d'inverno; quando venne il giorno dormiva ai piedi della regina della neve.

Ma come si sentì la piccola Gerda quando Kay non tornò più indietro? Dov'era finito? Nessuno lo sapeva, nessuno sapeva dare informazioni. I ragazzi raccontarono solo che lo avevano visto legare il suo slittino a una magnifica slitta che era passata per quella piazza e era poi uscita dalla porta della città. Nessuno sapeva dove fosse, molte lacrime scorsero, la piccola Gerda pianse profondamente e a lungo, poi dissero che era morto, che era affogato nel fiume che passava vicino alla città oh, furono proprio lunghi scuri giorni d'inverno. Poi venne la primavera con il sole caldo. "Kay è morto, è sparito" disse la piccola Gerda "No, non lo credo!" rispose il sole. "È morto, è sparito" lei diceva alle rondini. "Non lo crediamo!" rispondevano loro, e alla fine non lo credette più nemmeno la piccola Gerda. "Mi metterò le mie nuove scarpette rosse" disse una mattina "quelle che Kay non hai mai visto, e poi andrò al fiume a chiedere di lui." Era molto presto, lei baciò la vecchia nonna che ancora dormiva, si mise le scarpette rosse e si diresse tutta sola fuori dalla città verso il fiume. "È vero che hai preso il mio piccolo compagno di giochi? Ti regalerò le mie scarpette rosse se me lo renderai di nuovo." Le sembrò che le onde facessero dei cenni molto strani; allora prese le scarpette rosse, quelle che le erano più care, e le gettò nel fiume, ma caddero vicino alla riva e le onde le riportarono immediatamente a terra. Sembrava che il fiume non volesse prendere la cosa più cara a Gerda, poiché non poteva restituirle il piccolo Kay; lei invece credette di non aver gettato le scarpe abbastanza al largo, così salì su una barchetta che si trovava tra le canne, avanzò fino alla prua, e da lì gettò le scarpette, ma la barca non era legata bene e per quel movimento che lei fece si allontanò da terra; Gerda lo capì e subito cercò di scendere, ma prima che fosse tornata indietro la barca era già lontana più di un braccio dalla riva e ora galleggiava sempre più veloce. La piccola Gerda si spaventò terribilmente e si mise a piangere; nessuno la udì eccetto i passeri, ma questi non la potevano riportare a terra; comunque volarono lungo la sponda e cantarono, come per consolarla: "Siamo qui! Siamo qui!". La barca seguiva la corrente; la piccola Gerda se ne stava seduta scalza: le sue scarpette rosse galleggiavano dietro la barca, ma non riuscivano a raggiungerla perché quella correva più veloce. Le due sponde erano belle, con splendidi fiori, vecchi alberi e i pendii pieni di pecore e di mucche, ma non si vedeva neppure un uomo. ' Forse il fiume mi porterà dal piccolo Kay' pensò Gerda e così le tornò il buonumore, si alzò e guardò per molte ore le due belle rive verdi; poi giunse a un grande giardino di ciliegi dove si trovava una casetta con strane finestre rosse e blu e il tetto di paglia; due soldati di legno presentavano le armi a quanti passavano di lì in barca. Gerda gridò verso di loro, credeva fossero vivi, ma loro naturalmente non risposero. Gli passò molto vicino, e il fiume spingeva la barchetta proprio verso terra. Gerda gridò ancora più forte, così uscì dalla casa una donna vecchissima che si appoggiava a un bastone ricurvo; aveva in testa un grande cappello di paglia su cui erano dipinti i fiori più belli. "Oh, povera bambina" esclamò la vecchia "come hai fatto a essere presa da questa forte corrente e venir trascinata così lontano nel vasto mondo!" e intanto entrava in acqua; afferrò col bastone ricurvo la barca, la portò a riva e sollevò la piccola Gerda. Gerda era contenta di trovarsi all'asciutto, ma aveva un pò paura di quella vecchia sconosciuta. "Vieni, raccontami chi sei e come sei arrivata qui" le disse la vecchia. Gerda le raccontò ogni cosa e la vecchia scuoteva il capo e diceva: "Uhm! Uhm!". Quando Gerda, dopo aver narrato tutto, le chiese se per caso non aveva visto il piccolo Kay, la donna rispose che non era ancora passato di lì ma che sarebbe senz'altro venuto; quindi lei non doveva essere così triste, ma doveva assaggiare le sue ciliege e guardare i fiori che erano molto più belli di quelli dei libri illustrati, perché ognuno di loro sapeva raccontare un'intera storia.

Prese Gerda per mano e entrarono nella casetta, e la vecchia chiuse la porta a chiave. Le finestre erano molto alte e i vetri erano rossi, blu e gialli; la luce del giorno splendeva strana lì dentro con tutti i colori ma sul tavolo c'erano ciliege bellissime e Gerda ne mangiò quante volle, perché lì non aveva nessuna paura. Mentre lei mangiava, la vecchia le pettinava i capelli con un pettine d'oro, e i capelli si arricciavano e splendevano di un oro delizioso intorno al grazioso visino, che era rotondo e sembrava una rosa. "Da tanto tempo desideravo una bambina così dolce!" esclamò la vecchia. "Vedrai come staremo bene insieme noi due" e mentre pettinava i capelli della piccola Gerda la bambina dimenticava sempre più Kay, il suo compagno di giochi, perché la vecchia sapeva fare magie, ma non era una maga cattiva, faceva magie solo per il suo divertimento, e ora voleva semplicemente trattenere presso di sé la piccola Gerda. Per questo uscì in giardino, tese il bastone ricurvo verso tutti i rosai che erano splendidamente fioriti, e questi sparirono tutti quanti nella terra nera e non si poté più capire dove stavano prima. La vecchia infatti temeva che Gerda, vedendo le rose, potesse pensare alle sue, e quindi ricordare il piccolo Kay e fuggire. La vecchia condusse poi Gerda nel giardino fiorito. Che profumo, e che splendore! Tutti i fiori immaginabili, di ogni stagione, si trovavano lì, e tutti in fiore; nessun libro illustrato poteva essere più bello e più colorato. Gerda saltò di gioia e giocò finché il sole non scese dietro i grandi alberi di ciliegi, allora ebbe un delizioso lettino con le coperte di seta rossa, ricamate a violette azzurre; dormì e sognò beatamente, come nessuna regina avrebbe fatto neppure il giorno del suo matrimonio.

Il giorno dopo poté giocare ancora al sole, con i fiori, e così passarono molti giorni. Gerda conosceva ogni fiore, ma nonostante fossero molti, le sembrava che ne mancasse uno, però non sapeva quale. Un giorno si mise a guardare il vecchio cappello di paglia della donna, con tutti quei fiori disegnati, e il più bello di questi era una rosa. La vecchia aveva dimenticato di farla sparire dal cappello, quando aveva seppellito le altre nella terra. Eh, non si può pensare sempre a tutto! "Come!" esclamò Gerda "non c'è neppure una rosa?" Saltò tra le aiuole, cercò e cercò, ma non ne trovò nessuna, allora si sedette e cominciò a piangere, ma le sue calde lacrime caddero proprio dove un rosaio era stato seppellito. E quando quelle lacrime bagnarono la terra, il rosaio improvvisamente spuntò fuori, tutto in fiore proprio come quando era sprofondato, e Gerda lo abbracciò, baciò le rose e pensò a quelle splendide rose di casa sua e così pensò anche al piccolo Kay. "Oh, quanto tempo ho perso!" disse la bambina. "Devo trovare Kay! Voi non sapete dove si trova?" chiese alle rose "credete che sia morto?" "No, non è morto" risposero le rose. "Noi siamo state sotto terra, là si trovano tutti i morti, e Kay non c'era." "Grazie!" disse la piccola Gerda, dirigendosi verso gli altri fiori; guardò nei loro calici e chiese: "Voi non sapete dove si trova il piccolo Kay?". Ma ogni fiore si trovava al sole a sognare la sua favola o la sua storia, e la piccola Gerda ne sentì moltissime, ma nessuna le parlava di Kay. Che cosa disse il giglio rosso? "Senti il tamburo? bum! bum! ci sono solo due tonalità, sempre bum! bum! Senti il lamento di dolore delle donne? Senti il grido dei sacerdoti? Nel suo lungo mantello la donna indiana sta sul rogo, le fiamme avvolgono lei e il marito morto ma la donna indiana pensa a colui che vive, a colui i cui occhi bruciano il suo cuore più caldi delle fiamme che presto trasformeranno il suo corpo in cenere. Può la fiamma del cuore morire nella fiamma del rogo?" "Io non capisco niente!" disse la piccola Gerda. "È la mia storia!" disse il giglio rosso. "Che cosa dice il convolvolo?" "Là in fondo alla stretta strada di montagna si trova una antica rocca; la fitta edera verde cresce lungo i vecchi muri rossi, foglia dopo foglia, fino intorno al balcone, lì si trova una graziosa fanciulla che si affaccia oltre il parapetto e guarda verso la strada. Nessuna rosa che spunta tra i rami è più fresca di lei, nessun fiore di melo, che il vento porta via dall'albero, è più leggero di lei; come fruscia il suo magnifico mantello di seta!" "Eppure lui non arriva!" "È Kay che intendi?" chiese la piccola Gerda. "Che cosa racconta la piccola primula?" "Legata agli alberi con due corde pende una lunga asse, è un altalena; due graziose fanciulle con abiti bianchi come la neve e lunghi nastri di seta verde legati tra i capelli, si dondolano; il fratello, che è più grande di loro, sta in piedi sull'altalena e si regge alla corda con il braccio, perché in una mano ha una piccola bacinella e nell'altra una cannuccia di gesso, con cui soffia le bolle di sapone. L'altalena va, e le bolle volano splendide nei loro colori cangianti; l'ultima è ancora attaccata alla cannuccia e si piega al vento; l'altalena va. Il cagnolino nero, leggero come le bolle, si solleva sulle zampe posteriori e vuol salire anche lui sull'altalena, questa vola, il cane cade, abbaia e si arrabbia; rimane con un palmo di naso le bolle scoppiano. Un'asse che dondola, un'immagine fatta di schiuma che scoppia, questa è la mia canzone!" "Può darsi che sia bello quello che racconti, ma lo dici con una tale tristezza e non parli affatto di Kay." "Che cosa dicono i giacinti?" "C'erano una volta tre bellissime sorelle, pallide e sottili, una vestita di rosso, un'altra di blu e la terza di bianco, danzavano tenendosi per mano vicino al tranquillo laghetto al chiaro di luna. Non erano fanciulle degli elfi, erano figlie degli uomini. C'era un profumo così dolce, e le fanciulle sparirono nel bosco. Il profumo diventò sempre più intenso, tre bare in cui giacevano le graziose fanciulle si staccarono dal fitto del bosco verso il lago; le luminose lucciole volavano tutt'intorno, come piccole deboli luci. Dormono le fanciulle danzanti, o sono morte? Il profumo dei fiori dice che sono cadaveri; la campana della sera suona per i morti." "Mi rendi così triste!" disse la piccola Gerda. "Hai un profumo così forte; mi fai pensare alle fanciulle morte. Ah, allora anche il piccolo Kay è ormai morto? Le rose sono state giù nella terra e dicono di no." "Din, din, dan, dan!" suonarono le campane dei giacinti. "Noi non suoniamo per il piccolo Kay, non lo conosciamo neppure! Noi cantiamo solo la nostra canzone, l'unica che conosciamo!" Gerda s'incamminò verso il ranuncolo, che brillava tra le verdi foglie luccicanti. "Tu sei un piccolo sole chiaro" gli disse. "Dimmi se sai dove posso trovare il mio compagno di giochi!" E il ranuncolo brillò così delizioso guardando verso Gerda. Quale canzone poteva cantare il ranuncolo? Neppure la sua parlava di Kay. "In un piccolo cortile brillava il sole di Nostro Signore così caldo nel primo giorno di primavera; i raggi cadevano lungo la bianca parete della casa del vicino ai cui piedi crescevano i primi fiori gialli, brillando come d'oro ai caldi raggi del sole; la vecchia nonna era fuori sulla sua seggiola, la nipotina, una graziosa ma povera servetta, venne a casa per una breve visita, e baciò la nonna. C'era oro, l'oro del cuore in quel bacio benedetto. Oro sulla bocca, oro nel fondo del cuore, oro quassù nelle prime ore del mattino! Ecco questa è la mia piccola storia!" disse il ranuncolo. "La mia povera vecchia nonna!" sospirò Gerda. "Certamente ha nostalgia di me, è triste per me, come lo era stata per il piccolo Kay, ma io tornerò presto a casa, e porterò Kay con me. Non serve a nulla che io chieda ai fiori, loro conoscono solo le loro canzoni, non mi danno notizie." Così si rimboccò il vestitino per correre più in fretta; ma il narciso le colpì una gamba, mentre lei gli saltava sopra; allora si fermò, guardò quel lungo stelo giallo e chiese: "Tu sai forse qualcosa?" e gli si chinò sopra fino a toccarlo.Che cosa disse il narciso? "Io posso vedermi, io posso vedermi!" disse. "Oh, come profumo! Su nella piccola soffitta, mezza svestita, si trova una piccola ballerina, lei sta in piedi alcune volte su una gamba sola, a volte su due, tira calci a tutto il mondo; ma è solo un'illusione. Versa l'acqua della teiera su un pezzo di stoffa che tiene in mano, è il suo corpettino. La pulizia è una buona cosa! Anche l'abitino bianco che tiene appeso al gancio viene lavato nell'acqua della teiera e poi messo a asciugare sul tetto; lei lo indossa, con un fazzoletto giallo come lo zafferano intorno al collo, così l'abitino sembra ancora più bianco. Gamba in aria! Guarda come si regge su un piedino! Io posso vedermi! Io posso vedermi!" "Non mi interessa nulla!" esclamò Gerda "non sono cose da raccontare a me!" e intanto se ne corse verso la siepe del giardino. Il cancello era chiuso, ma lei rimosse il gancio arrugginito che si staccò, così la porta si aprì e lei corse a piedi nudi nel vasto mondo. Per tre volte si guardò indietro, ma nessuno la rincorreva; alla fine non poté più correre e sedette su una grande pietra, si guardò intorno, l'estate era passata, era già autunno inoltrato, ma non lo si notava nel bel giardino dove brillava sempre il sole e si trovavano i fiori di tutte le stagioni. "Oh, Signore, come ho fatto tardi!" esclamò la piccola Gerda. "È già autunno: ora non posso neppure riposarmi!" e si alzò per ripartire. Oh, come erano stanchi e doloranti i suoi piedini, e che freddo e che tristezza c'era tutt'intorno; le lunghe foglie dei salici erano tutte gialle, stillanti di brina; una foglia cadeva dopo l'altra, solo il susino aveva ancora i frutti, ma così amari che legavano i denti. Oh, com'era grigio e triste il vasto mondo!

Gerda dovette riposarsi di nuovo; allora una grossa cornacchia saltellò sulla neve proprio davanti a lei; rimase seduta a lungo osservandola e scuotendo la testa, poi disse: "Cra, cra! Buon dì, Buon dì!"; meglio non riuscì a dirlo, ma era ben disposta verso la fanciulla e le chiese come mai se ne andasse tutta sola nel vasto mondo. La parola: sola, Gerda la capì molto bene e sentì tutto quello che significava; così raccontò alla cornacchia tutta la sua vita e le chiese se non avesse visto Kay. La cornacchia mosse la testa pensierosa e disse: "Può essere! Può essere!". "Lo credi?" gridò la piccola Gerda e si mise a baciarla con tale foga che quasi la stava uccidendo. "Piano, piano!" disse la cornacchia. "Credo che possa essere il piccolo Kay, ma sicuramente ora ti ha dimenticato per la principessa!" "Abita presso una principessa?" chiese Gerda. "Sì, ascolta!" disse la cornacchia. "Ma io ho difficoltà a parlare la tua lingua; se tu capissi il linguaggio delle cornacchie, potrei raccontartelo meglio." "No, non l'ho imparato" esclamò Gerda "ma la nonna lo sapeva parlare, e sapeva anche il linguaggio dei neonati. Se solo l'avessi imparato anch'io!" "Non importa!" disse la cornacchia "racconterò meglio che posso, ma certo mi verrà male" e così raccontò quello che sapeva. "In questo regno, dove ci troviamo ora, abita una principessa straordinariamente intelligente; legge tutti i giornali che ci sono al mondo e poi li dimentica di nuovo, tanto è intelligente. Un giorno, mentre sedeva sul trono, che non è una cosa molto divertente, si mise a canticchiare una canzone che diceva così: «Perché non dovrei sposarmi?». «Ecco è proprio un'idea!» esclamò, e così si volle sposare, ma voleva avere un marito che sapesse rispondere quando lei gli avesse rivolto la parola, uno che non se ne stesse lì fermo e ben distinto, perché è molto noioso. Allora riunì tutte le dame di corte e quando queste sentirono che cosa voleva, si dimostrarono molto contente. «Molto bene!» dissero, «l'altro giorno pensavamo proprio a questo.» Puoi credere a ogni parola che ti dico!" soggiunse la cornacchia. "Ho una fidanzata addomesticata, che abita al castello, e mi ha raccontato tutto lei." La sua fidanzata era naturalmente anche lei una cornacchia; perché ogni cornacchia cerca il suo simile, che è una cornacchia. "Subito uscirono i giornali con il bordo pieno di cuori, e con il simbolo della principessa; ci si poteva leggere che ogni giovane di bell'aspetto era libero di andare al castello e di parlare con la principessa, e chi avesse parlato completamente a suo agio, e meglio di tutti, sarebbe stato prescelto dalla principessa! Sì, sì" disse la cornacchia "puoi credermi, è proprio vero, come il fatto che noi stiamo qui; la gente accorreva, ci fu un gran movimento e una gran folla! Ma la faccenda non si risolse, né il primo giorno, né il secondo. Tutti sapevano parlare bene, quando si trovavano per strada, ma non appena entravano nel portone del castello e vedevano la guardia vestita d'argento e su per le scale e i valletti vestiti d'oro, e le grandi sale illuminate, allora si confondevano. Così si trovavano davanti al trono dove stava la principessa, e non sapevano dire nulla se non l'ultima parola che lei aveva detto, e a lei naturalmente non interessava risentirla! Era come se la gente lì dentro avesse ingerito del tabacco e fosse caduta in letargo, finché non usciva di nuovo sulla strada, allora sapeva parlare! C'era una fila che andava dalle porte della città fino al castello. Io stesso ero lì a vedere!" raccontò la cornacchia. "Tutti avevano fame e sete, ma dal castello non ebbero neppure un bicchiere d'acqua tiepida, certo qualcuno dei più intelligenti s'era portato dei panini da casa, ma non li divise con i vicini, perché pensava: ' Se questo sembra affamato, la principessa non lo sceglierà! '." "Ma Kay, il piccolo Kay?" chiese Gerda "quando arriva? Era tra tutti gli altri?" "Dammi tempo, dammi tempo! Adesso arriviamo anche a lui. Era il terzo giorno quando arrivò una personcina senza cavallo e senza carrozza, che marciava ardita verso il castello, i suoi occhi brillavano come i tuoi, aveva lunghi capelli bellissimi, ma aveva vestiti molto poveri." "Era Kay!" gridò Gerda felice. "Ah, allora l'ho trovato!" e si mise a battere le mani. "Aveva un fagotto sulle spalle!" aggiunse la cornacchia, "No, era certo lo slittino" spiegò Gerda "perché se ne era andato con la slitta." "È possibile" disse la cornacchia. "Io non ho guardato attentamente. Ma so dalla mia fidanzata che quando arrivò alla porta del castello e vide la guardia vestita d'argento e poi lungo le scale i valletti vestiti d'oro, non restò affatto imbarazzato: fece un cenno e disse: «Dev'essere noioso restare lì sulle scale, io preferisco entrare». Le sale splendevano per le candele; i consiglieri e i ministri camminavano a piedi nudi e portavano vassoi d'oro: c'era di che restare imbarazzati! I suoi stivali scricchiolavano terribilmente, ma lui non aveva timore!" "È sicuramente Kay!" disse Gerda. "So che aveva gli stivali nuovi, li ho sentiti scricchiolare nella camera della nonna." "Ah, sì, scricchiolavano davvero!" disse la cornacchia. "Ma lui se ne andò tranquillamente dalla principessa, che sedeva su una perla grande come la ruota di un fuso; tutte le dame di corte con le loro cameriere e con le cameriere delle cameriere, e tutti i cavalieri con i loro servitori e con i servitori dei servitori, che avevano con loro i paggi, se ne stavano impalati tutt'intorno; e più erano vicini alla porta, più apparivano pieni di superbia. Il paggio del servitore dei servitori, che va sempre in giro in pantofole, non lo si poteva quasi guardare, tanto se ne stava fiero vicino alla porta!" "Deve essere orribile!" esclamò la piccola Gerda. "E Kay? Ha sposato la principessa?" "Se non fossi stato una cornacchia, l'avrei sposata io, anche se sono già fidanzato. Deve aver parlato molto bene, come parlo io nella lingua delle cornacchie: questo mi ha raccontato la mia fidanzata. Era proprio audace e grazioso; non era venuto per chiedere la mano della principessa; ma solo per sentire la sua intelligenza, e la trovò eccezionale, come lei trovò eccezionale lui." "Di certo era Kay!" disse Gerda. "Era così intelligente: sapeva fare i conti a memoria con le frazioni! Oh, non mi puoi far entrare nel castello?" "Già, è facile a dirsi!" disse la cornacchia. "Ma come possiamo fare? Devo parlarne alla mia cara fidanzata; lei ci saprà consigliare bene; perché, questo te lo devo dire, una bambina come te non avrà mai il permesso di entrare ufficialmente." "Sì che lo avrò" rispose Gerda. "Quando Kay saprà che sono qui, verrà senz'altro fuori a prendermi." "Aspettami là vicino a quel varco!" disse la cornacchia, e scuotendo il capo volò via. La cornacchia tornò quando già era venuto buio. "Cra, cra cra!" disse. "Devo salutarti da parte della mia fidanzata. E qui c'è un panino per te. L'ha preso in cucina, ce n'è tanto di pane e tu sei sicuramente affamata. Non è possibile che tu entri nel castello: sei a piedi nudi e la guardia vestita d'argento e i valletti vestiti d'oro non te lo permetterebbero. Ma non piangere, entrerai ugualmente. La mia fidanzata conosce una piccola entrata sul retro, che conduce alla camera da letto, e lei sa bene dove prendere le chiavi." Entrarono nel giardino per il grande viale, dove le foglie cadevano una dopo l'altra, e quando al castello le luci si spensero a una a una, la cornacchia condusse la piccola Gerda a una porta sul retro che era socchiusa. Oh, come batteva il cuore di Gerda per la paura e per la nostalgia! Era come se stesse facendo qualcosa di male, ma in realtà voleva solo sapere se si trattava del piccolo Kay. Certo, doveva essere lui, e Gerda ricordò i suoi occhi intelligenti, i suoi lunghi capelli; le sembrava proprio di vederlo sorridere, come quando erano a casa sotto le rose. Lui sarebbe certamente stato contento di vederla e di sentire che lungo cammino aveva percorso per ritrovarlo e come tutti a casa erano stati tristi quando lui non era ritornato. Oh, era paura e gioia insieme. Ora si trovavano sulla scala; su un armadio brillava una piccola lampada. In mezzo al pavimento stava la cornacchia domestica che girava la testa da tutte le parti e osservava Gerda fare l'inchino proprio come le aveva insegnato la nonna. "Il mio fidanzato ha parlato così bene di voi, mia piccola signorina!" disse la cornacchia domestica. "Il vostro curriculum vitae, come si dice, è molto commovente! Se prenderete la lanterna, vi precederò. Faremo la strada più diretta, perché non incontreremo nessuno." "Mi sembra che qualcuno ci stia seguendo" disse Gerda. Qualcosa al suo fianco fischiava; era come se ci fossero ombre sulle pareti, cavalli con le criniere svolazzanti e le zampe snelle, giovani cacciatori, dame e signori sui cavalli. "Sono solo sogni!" disse la cornacchia. "Vengono a prendere i pensieri delle Loro Maestà per portarli a caccia, ed è un bene, così voi potrete osservarli meglio nei loro letti. Ma speriamo che se arriverete a ottenere onori e riconoscimenti, mostrerete un cuore riconoscente." "Non si deve parlare di queste cose!" esclamò la cornacchia del bosco. Poi entrarono nel primo salone, che era tappezzato di raso rosa a fiori, qui i sogni passarono fischiando, ma se ne andarono così in fretta che Gerda non riuscì a vedere le Loro Maestà. I saloni erano uno più bello dell'altro, davvero c'era da rimanere stupefatti; ora si trovavano nella camera da letto. Il soffitto là dentro somigliava a una grossa palma con foglie di vetro, di un vetro prezioso, e in mezzo al pavimento erano appesi a un grosso stelo d'oro due letti, che sembravano gigli; uno era bianco e vi si trovava la principessa; l'altro era rosso, ed era quello dove Gerda doveva cercare il piccolo Kay. Sollevò uno dei petali rossi e vide una nuca bruna: oh, era certo Kay! Gridò a voce alta il suo nome e gli avvicinò la lampada. I sogni a cavallo fuggirono dal salone; il principe si svegliò, voltò il capo... oh, non era il piccolo Kay! Gli assomigliava soltanto per la nuca, ma era anche lui giovane e bello. Dal letto bianco a forma di giglio si affacciò la principessa e chiese che cosa stesse succedendo. Allora la piccola Gerda si mise a piangere e raccontò tutta la sua storia e tutto quello che le cornacchie avevano fatto per lei. "Oh poverina!" esclamarono il principe e la principessa e lodarono le cornacchie, dicendo che non erano affatto in collera con loro, ma che naturalmente non avrebbero più dovuto farlo. Per quella volta avrebbero ricevuto una ricompensa. "Volete volare libere?" chiese la principessa "oppure volete avere un incarico fisso come cornacchie di corte con il diritto di mangiare tutto quello che avanza in cucina?" Entrambe le cornacchie s'inchinarono e scelsero l'impiego fisso; pensavano alla vecchiaia e si dissero che era un bene avere qualcosa per i giorni bui, come si usa dire. Il principe si alzò dal letto e vi fece dormire Gerda, ma di più non poteva fare. Lei giunse le manine e pensò: ' Come sono buoni gli uomini e gli animali! ' e così chiuse gli occhi e dormì tranquillamente. Tutti i sogni rientrarono volando, e apparivano ora come angeli del Signore: trascinavano una piccola slitta dove sedeva Kay che salutava. Ma era solo un sogno, e quando Gerda si risvegliò era tutto sparito di nuovo. Il giorno dopo venne rivestita da capo a piedi di seta e di velluto, le venne offerto di rimanere al castello con un futuro assicurato, ma lei chiese solo di poter avere una piccola carrozza con un cavallo e un di stivaletti, così da poter viaggiare di nuovo nel vasto mondo in cerca di Kay. Ottenne stivaletti e manicotto: era molto graziosa vestita così, e quando volle partire si fermò davanti alla porta una carrozza nuova di oro puro con lo stemma del principe e della principessa lucente come una stella; il postiglione, i servitori, e i valletti a cavallo perché c'erano anche i valletti a cavallo avevano in testa corone d'oro. Il principe e la principessa aiutarono la piccola a salire sulla carrozza e le augurarono ogni bene. La cornacchia del bosco, che ora si era sposata, la seguì per le prime tre miglia: sedeva vicino a lei perché non sopportava di viaggiare dietro; l'altra cornacchia rimase al portone e sbatté le ali: non li seguì perché soffriva di mal di testa da quando aveva un impiego fisso e troppo da mangiare. Nella carrozza si trovavano croccanti di zucchero, e sul sedile avevano messo frutta e panpepato. "Addio! Addio!" gridarono il principe e la principessa, e la piccola Gerda pianse, e anche la cornacchia pianse, così passarono le prime miglia, poi anche la cornacchia salutò e questo fu il congedo più doloroso. Volò in alto, su un albero, e sbatté le ali nere finché poté vedere la carrozza, che luccicava come il sole.

Viaggiarono attraverso i boschi scuri, ma la carrozza brillava come una fiamma, e abbagliava gli occhi dei briganti, che non riuscivano a sopportarla. "È oro, è oro!" gridarono, avanzando di corsa, presero i cavalli, uccisero il postiglione, i valletti e i servitori, e tirarono fuori la piccola Gerda dalla carrozza. "È grassa, è graziosa, è stata ingrassata con gheriglio di noci!" disse la vecchia moglie del brigante, che aveva una lunghissima barba arricciata e sopracciglie che le coprivano gli occhi. "Deve essere buona come un agnellino! Uh, deve essere saporita!" e intanto tirò fuori il coltello che scintillò orribilmente. "Ahi!" esclamò in quello stesso momento. Era stata morsicata all'orecchio dalla figlioletta, che s'era appesa alla sua schiena e che era terribilmente selvaggia e insolente. "Mocciosa!" esclamò la madre, ma non fece in tempo a colpire Gerda. "Deve giocare con me!" disse la figlia del brigante. "Mi deve dare il suo manicotto, i suoi bei vestiti, e dormirà nel mio letto!" e così diede un altro morso cosicché la moglie del brigante saltò in aria e girò su se stessa e tutti i briganti si misero a ridere dicendo: "Guarda come balla con sua figlia!". "Voglio andare in carrozza!" disse la figlia del brigante, e riuscì a ottenere quello che voleva perché era molto ostinata e viziata. Lei e Gerda salirono in carrozza e corsero oltre sterpi e rovi fino nel più profondo del bosco. La figlia del brigante era grande come Gerda, ma molto più forte, più robusta e con la pelle scura, aveva gli occhi neri che sembravano quasi tristi. Afferrò la piccola Gerda alla vita e le disse: "Non ti uccideranno finché io non mi arrabbierò con te! Sei forse una principessa?". "No" rispose la piccola Gerda, e le raccontò tutto quello che aveva vissuto, e quanto volesse bene al piccolo Kay. La figlia del brigante la guardò molto seriamente, fece un cenno con la testa e disse: "Non ti ammazzeranno, anche se io mi arrabbierò con te, perché lo farò io stessa!". Intanto asciugò gli occhi di Gerda e infilò le mani nel bel manicotto così morbido e caldo. La carrozza si fermò. Si trovava in mezzo al cortile di un castello di briganti; tutto era decrepito, da cima a fondo, corvi e cornacchie uscivano volando da tutti i fori, e grandi mastini, che sembrava potessero mangiare un uomo, saltavano in aria, ma non abbaiavano perché era proibito. Nella grande vecchia sala annerita dal fumo si trovava in mezzo al pavimento di pietra un grosso fuoco; il fumo saliva verso il soffitto e doveva trovare da sé un'uscita; in un grande pentolone cuoceva la zuppa e sullo spiedo giravano conigli e lepri. "Dormirai con me questa notte e con tutti i miei animaletti!" disse la figlia del brigante. Mangiarono e bevvero e poi andarono in un angolo dove si trovavano paglia e coperte. Un po' più in alto, su pertiche e assicelle, erano appollaiati quasi cento colombi: sembrava che dormissero, ma si mossero un po' quando le bambine arrivarono. "Sono tutti miei" disse la figlia del brigante, e afferrò in fretta uno dei più vicini, tenendolo poi per le zampe e agitandolo, in modo che sbattesse le ali. "Bacialo!" gridò, sbattendoglielo sulla faccia. "Là ci sono i miei colombi selvatici!" continuò indicando le sbarre che chiudevano un buco nel muro. "Sono colombi selvatici quei due! Se ne volerebbero subito via, se non fossero chiusi a chiave. E qui si trova la mia carissima renna" e tirò per le corna una renna, che aveva un anello di rame luccicante intorno al collo e era legata. "Anche questa deve stare in gabbia, altrimenti scappa via. Ogni sera le faccio il solletico sotto il collo con il mio coltello affilato e lei ha così paura!" e prese un lungo coltello da una fessura del muro e lo fece scorrere sul collo della renna; quel povero animale si mise a tirar calci, e la figlia del brigante rise forte e trascinò Gerda con sé nel letto. "Tieni il coltello con te anche quando dormi?" chiese Gerda guardandolo un pò impaurita.

"Dormo sempre col coltello!" rispose la figlia del brigante. "Non si sa mai quello che può succedere. Ma raccontami di nuovo quello che mi hai detto prima sul piccolo Kay e su come sei andata in giro per il vasto mondo." Gerda raccontò dal principio, e i colombi selvatici tubavano nella gabbia, mentre gli altri dormivano. La figlia del brigante mise il braccio intorno al collo di Gerda, tenendo il coltello nell'altra mano, e dormì facendo molto rumore; Gerda invece non riuscì affatto a chiudere gli occhi, non sapeva se sarebbe vissuta o se sarebbe morta. I briganti erano seduti intorno al fuoco, cantavano e bevevano, e la moglie del brigante faceva le capriole. Oh, era orribile a vedersi per la piccola Gerda. Allora i colombi del bosco dissero: "Curr! Curr! noi abbiamo visto il piccolo Kay. Una gallina bianca portava la sua slitta, lui era seduto nella carrozza della regina della neve, che passava bassa sul bosco quando noi eravamo nel nido, faceva tanto vento che tutti i piccoli morirono, tranne noi due. Curr! Curr!". "Cosa dite lassù?" gridò Gerda "dove si è diretta la regina della neve? Sapete qualcosa?" "È sicuramente andata in Lapponia, perché là c'è sempre neve e ghiaccio. Prova a chiedere alla renna, che è qui legata alla corda." "C'è ghiaccio e neve, là si sta molto bene!" rispose la renna. "Là si salta liberamente nelle grandi vallate che brillano! Là si trova la tenda estiva della regina della neve, ma il suo castello si trova vicino al Polo Nord, su di un'isola che si chiama Spitzberg!" "Oh Kay, piccolo Kay!" sospirò Gerda. "Stai un po' ferma!" disse la figlia del brigante "altrimenti ti caccio il coltello nello stomaco!" Al mattino Gerda raccontò tutto quello che i colombi selvatici le avevano detto, e la figlia del brigante diventò seria, ma piegò la testa dicendo: "È lo stesso, è lo stesso! Tu sai dove si trova la Lapponia?" chiese alla renna. "Chi dovrebbe saperlo meglio di me?" rispose l'animale, e i suoi occhi brillavano di gioia "là sono nata e cresciuta, là ho saltato sui campi di neve!" "Ascolta!" disse la figlia del brigante a Gerda. "Vedi, tutti i nostri uomini sono andati via, ma la mamma è ancora qui, e qui resta; ma quando comincia il giorno si mette a bere da quel grosso bottiglione e poi fa un pisolino; a quel punto farò qualcosa per te!" Intanto saltò giù dal letto, si precipitò al collo della madre, le tirò i baffi e disse: "Mio caro caprone, buon giorno!". E la madre le pizzicò il naso finché non divenne rosso e blu, ma erano tutte manifestazioni di affetto. Quando la madre, bevuta la sua bottiglia, si mise a riposare, la figlia del brigante andò dalla renna e disse: "Mi piacerebbe tanto continuare a farti il solletico molte altre volte con il mio coltello affilato, perché sei così divertente, ma non importa, scioglierò la corda e ti aiuterò a fuggire in modo che tu possa tornare in Lapponia; ma tu dovrai correre più forte che potrai, e portare questa fanciulla al castello della regina della neve dove si trova il suo compagno di giochi. Hai sentito quello che lei ha raccontato, perché ha parlato a voce alta, e tu ascolti sempre!". La renna saltò di gioia. La figlia del brigante aiutò la piccola Gerda a salire in groppa, fu attenta a legarla ben stretta e le diede persino un cuscino su cui sedere. "Eccoti i tuoi stivaletti di pelo" esclamò "perché là farà freddo, ma il manicotto lo tengo io perché è troppo grazioso! Comunque anche tu non devi gelare, eccoti i guantoni di mia madre, ti arriveranno certo fino al gomito, infilali. Adesso hai le mani proprio come quelle della mia brutta mamma!" Gerda pianse di gioia. "Non mi piace che tu pianga!" disse la figlia del brigante. "Adesso devi apparire contenta! Eccoti due pani e un prosciutto, così non avrai fame." Li sistemò sul dorso della renna, aprì la porta, rinchiuse tutti i cani e tagliò la corda col coltello, dicendo alla renna: "Corri, su! Ma stai bene attenta alla bambina". Gerda tese le mani con i guantoni verso la figlia del brigante e salutò e la renna partì passando sopra cespugli e sterpi, attraverso il grande bosco, oltre steppe e paludi, più in fretta che poté. I lupi ululavano e le cornacchie gridavano. "Fut fut!" si sentì un crepitio nel cielo, che si illuminò tutto di rosso. "Ecco la mia cara aurora boreale!" disse la renna "guarda come brilla!" e corse ancora più in fretta, giorno e notte; i pani vennero mangiati, e anche il prosciutto, ma intanto erano giunte in Lapponia.

Si fermarono vicino a una casetta, misera misera; il tetto scendeva fino a terra e la porta era così bassa che la famiglia per entrare doveva strisciare a terra. Non c'era nessuno in casa eccetto una vecchia donna della Lapponia, che stava friggendo del pesce su una lampada a olio di balena, la renna raccontò tutta la storia di Gerda, ma prima la sua, perché pensava che fosse importante, e Gerda era così infreddolita che non riusciva a parlare. "Ah, poveretti!" disse la donna della Lapponia "allora dovete viaggiare ancora a lungo! Dovete percorrere più di cento miglia fino in Finlandia, perché la regina della neve si trova in vacanza là; e ogni notte accende grandi fuochi azzurri. Scriverò un messaggio su un baccalà secco, dato che non ho carta, e voi dovrete portarlo alla donna di Finlandia, che troverete lassù, così lei potrà darvi informazioni migliori." Così, quando Gerda si fu scaldata e ebbe mangiato e bevuto la donna di Lapponia scrisse due righe su un baccalà secco, disse a Gerda di non perderlo, legò di nuovo la fanciulla alla renna e questa partì. "Fut! Fut! Fut!" si sentiva nell'aria, e per tutta la notte brillò la splendida aurora boreale, alla fine giunsero in Finlandia e bussarono al camino della donna di Finlandia, dato che non c'era neppure una porta. Là dentro faceva talmente caldo, che la donna di Finlandia andava in giro quasi nuda; era piccolina e molto sporca; tolse subito i vestiti alla piccola Gerda, le tolse i guanti e gli stivali perché altrimenti avrebbe sofferto troppo caldo, poi mise sulla testa della renna un pezzo di ghiaccio e finalmente lesse quello che c'era scritto sul baccalà secco; lo lesse tre volte in modo da saperlo a memoria, poi gettò il pesce nella pentola del cibo, perché si poteva mangiare e lei non sprecava mai nulla. Infine la renna raccontò prima la sua storia e poi quella della piccola Gerda, e la donna di Finlandia strizzò gli occhi senza dire nulla. "Tu sei così intelligente" disse la renna. "So che sei in grado di legare tutti i venti del mondo con un filo da cucire; quando il navigatore scioglie un nodo, riceve un buon vento, se ne scioglie un altro, allora il vento si fa più forte; se poi scioglie anche il terzo e il quarto, allora c'è tempesta e i boschi vengono sradicati. Non vuoi dare a questa bambina una bevanda in modo che abbia la forza di dodici uomini e possa vincere la regina della neve?" "La forza di dodici uomini" disse la donna di Finlandia "a cosa servirebbe?" Poi andò a un ripiano e prese una grande pelle arrotolata e la srotolò: c'erano strane lettere sopra, e la donna di Finlandia lesse finché il sudore non le colò dalla fronte. Ma la renna chiese di nuovo qualcosa per la piccola Gerda e Gerda stessa volse verso la donna di Finlandia uno sguardo così implorante, pieno di lacrime, e questa ricominciò di nuovo a strizzare gli occhi, poi portò la renna in un angolo dove le sussurrò qualcosa mentre le metteva del ghiaccio fresco sulla testa: "Il piccolo Kay è veramente presso la regina della neve e trova tutto di suo piacimento e crede che quella sia la parte più bella del mondo, ma tutto questo è accaduto perché gli sono caduti una scheggia di vetro nel cuore e un granellino di vetro in un occhio, prima questi devono essere estratti, altrimenti non diventerà mai un uomo e la regina della neve manterrà il potere su di lui." "Ma tu non puoi dare qualcosa alla piccola Gerda, in modo che lei possa avere potere su tutto?" "Io non posso darle una forza più grande di quella che già ha! Non vedi quanto è grande? Non vedi come gli uomini e gli animali la servono, e quanto ha camminato nel mondo con le sue sole gambe? Non deve avere da noi il potere: il potere si trova nel suo cuore perché è una fanciulla dolce e innocente Se lei stessa non riesce a arrivare dalla regina della neve e a togliere il vetro dal piccolo Kay, noi non possiamo aiutarla! A due miglia da qui comincia il giardino della regina della neve, tu devi portare fino a lì la fanciulla, e metterla vicino a un grande cespuglio di bacche rosse che si trova tra la neve; ma non star lì a chiacchierare a lungo e affrettati a tornare indietro!" e così dicendo mise la piccola Gerda sulla renna, che cominciò a correre più forte che poté. "Oh non ho preso gli stivali! e nemmeno i guanti!" gridò la piccola Gerda; lo notava solo adesso per il freddo pungente, ma la renna non osava fermarsi e corse finché non giunse al grande cespuglio con le bacche rosse; lì fece scendere Gerda, la baciò sulla bocca, e grandi lacrime lucenti scesero sulle guance dell'animale, poi corse via più in fretta che poté. La povera Gerda si trovò lì senza scarpe e senza guanti in mezzo alla terribile e fredda Finlandia. Corse avanti più in fretta che poté, poi giunse un intero reggimento di fiocchi di neve, ma questi non cadevano dal cielo, che era limpido e brillava per l'aurora boreale; i fiocchi di neve correvano proprio lungo la terra e più si avvicinavano, più diventavano grandi; Gerda si ricordava bene quanto grossi e meravigliosi le erano sembrati quella volta che li aveva visti attraverso la lente d'ingrandimento, ma qui erano grandi e terribili in un altro modo, erano vivi, erano l'avanguardia della regina della neve e avevano le forme più strane; alcuni sembravano orribili e grossi porcospini, altri apparivano come serpenti raggomitolati con la testa ritta, altri ancora come piccoli grassi orsi dal pelo irto, ma tutti erano di un bianco splendente, tutti erano fiocchi di neve vivi. Allora la piccola Gerda recitò il Padre Nostro, il freddo era così forte che riusciva a vedere il suo respiro in una nuvoletta di fumo che usciva dalla bocca; poi si fece sempre più denso e si trasformò in piccoli angeli trasparenti che crescevano sempre di più toccando la terra. Tutti avevano l'elmo in capo e una spada e lo scudo ai fianchi; divennero sempre più numerosi, e quando Gerda ebbe finito il Padre Nostro, ce n'era una intera legione intorno a lei. Colpirono con le spade gli orribili fiocchi di neve fino a romperli in mille pezzi, così la piccola Gerda poté avanzare sicura e piena di coraggio. Gli angeli le toccavano i piedi e le mani in modo che lei sentisse meno il freddo, e arrivò così al castello della regina della neve. Ma adesso dobbiamo prima vedere come stava Kay. Kay non pensava affatto alla piccola Gerda e ancora meno pensava che lei fosse alle porte del castello.

Le pareti del castello erano formate dalla neve che cadeva, le finestre e le porte dai venti che soffiavano; c'erano più di cento saloni, secondo la forma che prendeva la neve caduta; il più grande si allungava per molte miglia, tutti erano illuminati dall'aurora boreale e erano grandi, vuoti, gelati, luminosi. L'allegria non arrivava mai, mai c'era stato un ballo di orsacchiotti dove la tempesta potesse intonare la musica, e gli orsi camminare sulle zampe posteriori e comportarsi in modo distinto, mai c'erano stati giullari che facessero ballare gli orsi polari; mai una riunione per bere il caffè con le bianche signore volpi, tutto era vuoto, enorme e gelato nelle sale della regina della neve. Le aurore boreali brillavano con tanta regolarità che si poteva addirittura calcolare quando brillavano della luce più potente e quando della luce più debole. Proprio in mezzo a una sala di neve vuota e enorme si trovava un lago ghiacciato; era infranto in mille pezzi, ma ogni pezzo era identico all'altro, e era una vera opera d'arte. Proprio lì sopra stava seduta la regina della neve quando era a casa, così diceva che sedeva sullo specchio dell'intelligenza, e che quello era l'unico e il miglior posto del mondo. Il piccolo Kay era viola per il freddo, anzi quasi nero, ma non se ne accorgeva, perché lei con un bacio gli aveva tolto il brivido del freddo, e il suo cuore era come un grumo di ghiaccio. Stava trafficando intorno a alcuni pezzi di ghiaccio lisci e appuntiti, che deponeva in tutti i modi possibili, perché ne voleva ricavare qualcosa, un po' come quando noi abbiamo dei pezzettini di legno e li mettiamo insieme per formare delle figure: quello che si chiama il gioco cinese. Anche Kay faceva varie figure, le più perfette, era il gioco di ghiaccio dell'intelligenza; ai suoi occhi le figure erano meravigliose e molto importanti, e questo per merito del granellino di vetro che aveva nell'occhio! Poi realizzava delle figure che erano delle parole scritte, ma non riusciva mai a comporre la parola che lui voleva, «eternità», e la regina della neve gli aveva detto: "Se riuscirai a comporre quella parola, diventerai signore di te stesso, e io ti regalerò il mondo intero e un paio di pattini nuovi". Ma lui non riusciva. "Ora devo andare nei paesi caldi" disse la regina della neve, "devo andare a guardare nelle mie pentole nere." Erano le montagne che gettano il fuoco, l'Etna e il Vesuvio, come si chiamano. "Devo imbiancarle un pò! È ora ormai. E la neve sta molto bene sui limoni e sulle viti!" Così la regina della neve volò via. Kay rimase tutto solo in quelle grandissime e gelide sale vuote a guardare i suoi pezzi di ghiaccio continuando a pensare finché la testa quasi non gli scoppiava; restava rigido e immobile, tanto da sembrare morto assiderato. Fu in quel momento che la piccola Gerda entrò nel castello attraverso il grande portone, fatto di vento tagliente, ma lei recitò la preghiera della sera e il vento si calmò, come volesse dormire, così lei entrò in quelle sale gelide, vuote e enormi. Allora vide Kay, lo riconobbe, e gli saltò al collo, lo abbracciò stretto e gridò: "Kay! Dolce piccolo Kay! Finalmente ti ho trovato!". Ma lui rimase immobile, rigido e gelido; allora la piccola Gerda pianse calde lacrime, che gli caddero sul petto, gli entrarono nel cuore, sciolsero il grumo di ghiaccio e corrosero il pezzettino di specchio che si trovava dentro; Kay la guardò e lei cantò l'inno:

"Le rose crescono nelle valli,
laggiù parleremo con Gesù Bambino!"

Allora Kay scoppiò in lacrime; pianse tanto che il granellino di specchio gli uscì dagli occhi, lui riconobbe la fanciulla e esultò di gioia: "Gerda, dolce piccola Gerda! Dove sei stata tutto questo tempo? E dove sono stato io?" e si guardò intorno. "Che freddo fa qui! Com'è tutto vuoto e enorme!" E abbracciò forte Gerda, e lei rise e pianse di gioia, era così bello che persino i pezzi di ghiaccio si misero a danzare di gioia intorno a loro, e quando furono stanchi si fermarono, formando proprio quelle lettere che la regina della neve aveva detto a Kay di comporre, per poter diventare signore di se stesso e ottenere da lei tutto il mondo e un paio di pattini nuovi. Gerda gli baciò le guance, e queste ripresero colore, poi gli baciò gli occhi, che luccicarono come quelli di lei, poi gli baciò i piedi e le mani, e lui divenne vispo e sano. La regina della neve poteva pure tornare a casa: la lettera di addio stava scritta là con i pezzi di ghiaccio luccicanti. Allora si presero per mano e uscirono dal grande castello; parlarono della nonna e delle rose sul tetto; e dove loro camminavano i venti si placavano e il sole splendeva; quando raggiunsero il cespuglio con le bacche rosse trovarono la renna che li aspettava; c'era un'altra giovane renna con lei, con le mammelle gonfie: diede ai piccoli il suo latte e li baciò sulla bocca. Poi le due renne portarono Kay e Gerda prima dalla donna di Finlandia, dove si scaldarono nella calda stanza e dove si informarono sul viaggio di ritorno; quindi dalla donna della Lapponia, che aveva cucito per loro dei nuovi abitini e preparato una slitta. Allora le due renne si misero a saltare al loro fianco e li accompagnarono fino ai confini del paese, dove cominciava a spuntare la prima erbetta, e là i bambini salutarono le renne e la donna della Lapponia. "Addio!" dissero tutti. I primi uccellini cominciarono a cinguettare, il bosco era pieno di verdi gemme, e da li uscì cavalcando su un magnifico cavallo che Gerda conosceva (era stato attaccato alla carrozza d'oro) una fanciulla con un bel cappello rosso in testa e in mano le pistole; era la figlia del brigante, che, stanca di stare a casa, voleva andare prima verso Nord e poi, se non si fosse divertita, da qualche altra parte. Subito riconobbe Gerda e Gerda riconobbe lei; fu veramente una gioia! "Sei proprio un bel tipo a andare in giro per il mondo!" disse al piccolo Kay. "Mi piacerebbe sapere se meriti che la gente vada fino alla fine del mondo per te!" Ma Gerda le accarezzò la guancia e le chiese del principe e della principessa. "Sono partiti per una terra straniera" rispose la figlia del brigante. "E la cornacchia?" chiese la piccola Gerda. "Ah, la cornacchia è morta!" rispose quella. "La cornacchia domestica è diventata vedova e se ne va in giro con un pezzetto di lana nero intorno a una zampa; si lamenta in modo pietoso, ma sono tutte storie! Adesso raccontami tu piuttosto come ti è andata e come hai fatto a trovarlo." Gerda e Kay raccontarono insieme. "Oh, accidenti!" esclamò la figlia del brigante, strinse loro la mano e promise che se un giorno fosse passata per il loro paese sarebbe andata a trovarli; poi se ne cavalcò via nel vasto mondo, mentre Kay e Gerda s'incamminarono mano nella mano, e dove camminavano spuntava la bella primavera con i fiori e il verde; le campane della chiesa suonarono, e loro riconobbero le alte torri e la grande città. Era quella in cui abitavano: vi entrarono e camminarono fino alla porta della nonna, su per le scale, nella stanza dove tutto si trovava nello stesso modo di prima, e l'orologio diceva: "Tic! Tac!" e le lancette giravano; ma quando entrarono dalla porta si accorsero che erano diventati adulti. Le rose che si trovavano sulla grondaia e che erano fiorite entravano dalle finestre aperte e c'erano ancora i loro due seggiolini da bambini; Kay e Gerda sedettero ognuno sul proprio e si tennero per mano; avevano dimenticato, come fosse stato un brutto sogno, quel freddo vuoto splendore della regina della neve. La nonna si trovava nella chiara luce di Dio e leggeva a voce alta dal Vangelo: "Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli". Kay e Gerda si guardarono negli occhi, e improvvisamente capirono il vecchio inno:

"Le rose crescono nelle valli,
laggiù parleremo con Gesù Bambino!"

Stavano lì seduti, entrambi adulti, eppure bambini, bambini nel cuore, e era estate, la calda estate benedetta.